Dylan Dog

Era l’estate del 1994 quando acquistai il mio primo albo di Dylan Dog. L’estate dei mondiali negli USA, l’estate dei rigori fatali. A dicembre avrei compiuto 11 anni. Ricordo che ero al mare con la mia famiglia e vicino allo stabilimento c’era un’edicola. Amavo l’edicola. Piena di colori, copertine, giocattoli (ebbene sì, nel ’94 a 11 anni si volevano ancora i giocattoli, la tecnologia era altra cosa), era impossibile stare alla larga da quell’edicola. È strano: non ricordo il giorno o il mese esatto ma ricordo ogni dettaglio del mio primo incontro con Dylan Dog. Ricordo che lasciai la spiaggia da solo per andare in edicola a prendere qualcosa da leggere. A quei tempi ero quasi sicuramente ancora abbonato a Topolino ma come ho detto prima l’edicola mi affascinava troppo e forse era arrivato il momento di leggere altro. Mi avvicinai allo scaffale dei fumetti e non so per quale motivo, la mia scelta ricadde su quell’albo dal nome inglese: Dylan Dog. Era l’albo numero 93 intitolato ‘Presenze’. In copertina c’era il protagonista seduto con un teschio in mano (ancora non potevo associarlo all’Otello) con una luna piena ed una ruspa ad occupare lo sfondo. Pagai le duemilacinquecento lire e tornai in spiaggia. Non ricordo la reazione dei miei genitori dopo questo acquisto, forse non mi dissero nulla. Fortunatamente ho avuto sempre una gran libertà da bambino nella scelta dei libri da leggere (Stephen King) , dei film da guardare e (qualche anno dopo) dei videogiochi con cui giocare. A quelle duemilacinquecento lire ne seguirono delle altre. Molte altre. Insieme a mio padre recuperai gli albi precedenti, così da completare la collezione.

Decisi che da quell’estate del 1994 avrei avuto un nuovo compagno: Dylan Dog.

Aprile 2016. Sono passati giusto un po’ di anni da quell’estate. Ho 32 anni, sono sposato, sono padre ed ho da poco finito di leggere l’ultimo albo di Dylan Dog, il 356 dal titolo ‘La macchina umana’. Un albo particolare, intenso e attuale. Un albo che ti insegna a guardare e capire il mondo e la società che ci circonda, anche se hai 32 e sei marito e padre. Dylan Dog è un ispettore dell’incubo abituato a combattere ogni tipo di mostro. Non questa volta però. Questa volta l’orrore da combattere è il quotidiano e lui ne fa parte. È un impiegato assunto per una multinazionale dove l’imperativo è PRODURRE, anche se non si sa bene cosa. Si vive e si lavora fino ad assottigliare queste due dimensioni. Il turno di lavoro è finito ma guai ad uscire per primo dall’ufficio, non è rispettoso, non è produttivo. La firma sul contratto di lavoro diventa il primo di una serie di ingranaggi che portano i protagonisti a entrare in una quotidianità alienante. Un vivere quotidiano dove ci si isola, dove tutto è fatto con un unico scopo: aumentare i profitti dell’azienda, trasformandosi in azienda. Si crea un divario fra ciò che era prima e ciò che è adesso. Non si hanno più amici ma solo colleghi, non esiste più nessuna passione anzi tutto ciò che crea svago viene venduto per far fronte alle spese quotidiane. Già le spese. Si lavora e si consuma. Si vive pensando alle rate da pagare mentre ne iniziano delle altre per l’acquisto di futili oggetti (in questo caso per acquistare modelli di smartphone che si rinnovano ogni due o tre tavole).

Magari è una visione amplificata della realtà, magari no. Può essere grottesco, può darsi che lo sia il nostro mondo. Perché scrivo di questo? Perché anch’io sono protagonista di questo albo. Anch’io devo produrre (solo per quindici giorni al mese), anch’io per quindici giorni al mese faccio parte del sistema burocratico e anch’io ho delle rate a cui pensare (molte). Già le rate. Ricordo ancora le notti insonni pensando alle 300 rate per l’acquisto della casa. 300 rate, 300 rate, 300 rate. Rate su rate. Uno dei protagonisti si scatta una foto ogni volta che paga una rata. Il tempo inizia a essere scandito dalle rate, è così. Si pensa alla rata e poi al resto. Faccio parte di questo società e questa società pretende questo: devi produrre e devi consumare e se consumi più di quanto tu produca va anche meglio perché ti sfrutti da solo, senza l’aiuto di nessuno. Una delle tavole più forti dell’albo è vedere Groucho, l’assistente di Dylan che mette in vendita il clarinetto e il galeone ( per chi conosce il fumetto sa che sono due grandi passatempi di Dylan). Non lo nascondo, alle volte anch’io ho pensato di poter vendere qualche attrezzatura fotografica per venire incontro a qualche spesa imprevista. Ne vale la pena? Grazie a questo albo posso rispondere con un no, secco e deciso.

Devo dire grazie allo sceneggiatore perché mi ha insegnato tante cose. Ho visto la mia vita da un’altra prospettiva. Ho capito che ho ragione a sentirmi fuori da ogni qualsiasi politica aziendale perché è giusto lavorare ma non lo è se si trascura la vita stessa. O meglio: il lavoro va rispettato, onorato, benedetto quello che volete ed è giusto che sia così ma la vita è la vita ed il lavoro è solo una porzione della vita stessa. Vale la pena sacrificare le nostre passioni, le relazioni con amici e familiari per un imperativo che non parte da noi? Mi è stato detto che sono sempre il primo a timbrare, un po’ in toni scherzosi un po’ no. È vero. Ho rispetto del lavoro, svolgo il mio lavoro con il massimo dell’impegno ma ciò che riserva la vita fuori dal lavoro ha un valore troppo grande. Se devo aspettare due minuti giusto per far vedere che sono ‘bravo’ preferisco non farlo e dedicare quei due minuti a mia moglie o mio figlio.  Alla fine dei giorni gli attimi passati fuori dalle mura lavorative saranno più importanti.

Cosa c’entra la fotografia in tutto questo? C’entra e il suo ruolo è fondamentale. La fotografia è nata come una passione e fortunatamente ben presto si è trasformata in lavoro ma, credetemi, la passione brucia ancora. Scatto fotografie, leggo di fotografia, non passa giorno in cui non pensi a qualcosa che ha a che fare con la fotografia. Le passioni sono importanti perché sono la parte bella della vita. Fotografare un matrimonio per me non è lavoro ma puro divertimento. Vedere una coppia di sposi emozionati nel rivedere le foto nate da me è qualcosa di indescrivibile. Per il lavoro (non fotografico) ho abbandonato un’altra mia passione. Non arbitro più da un bel po’ e ne sento la mancanza ma la fotografia non posso metterla in secondo piano. Stava per succedere, grazie all’albo numero 356 non accadrà mai. Se sono le azioni a definire un uomo voglio che nel mio caso oltre ad esse ci siano anche le mie fotografie perché di esse andrò sempre fiero. Il motivo? Le ho scattate in piena libertà e mi sono divertito a farlo.

 

 

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